- Pietro di Morrone
Eremita e Papa
(Papa dal 29/08/1294 al 13/12/1294)
Isernia, 1215 - Rovva di Fumone, Frosinone, 19 maggio 1296
Etimologia: Celestino = venuto dal cielo, dal latino
Al secolo
si chiamava Pietro Angeleri ed era nato da modesti contadini,
penultimo di dodici figli. Dalla madre, rimasta vedova, fu avviato
agli studi ecclesiastici, ma siccome si sentiva attratto dalle
austerità della vita monastica, a vent'anni Pietro si fece benedettino
a Faifoli (Benevento), che lasciò dopo pochi anni per vivere da
eremita in una grotta sul monte Palleno. Dopo tre anni fu ordinato
sacerdote a Roma. Ritornò a condurre vita eremitica sul Monte Morrone,
nei pressi di Sulmona, assetato di preghiera, di quotidiani digiuni e
macerazioni. Ben presto
incominciarono ad accorrere a lui dei discepoli coi quali si stabilì
sulla Maiella, attorno all'oratorio dello Spirito Santo, e costituì
nel 1264, con l'approvazione di Urbano IV, gli Eremiti di San Damiano,
detti poi Celestini, viventi secondo la regola benedettina
interpretata con molta severità. Quando venne a sapere che al Concilio
di Lione (1274) si volevano limitare i nuovi ordini, vi si recò in
persona. Giunse che il concilio era già finito, però fu ricevuto dal
Beato Gregorio X che confermò la sua congregazione (1275) costringendo
così i vescovi a restituire i beni di cui si erano già appropriati.
Beneficati dal Cardinale Latino Malabranca OP. e da Carlo II, re di
Napoli, i religiosi di Pietro Morrone moltiplicarono i monasteri e
incorporarono abbazie in decadenza come quelle di Santa Maria di Faifoli
e San Giovanni in Piano di cui il fondatore fu successivamente abate.
A motivo della grande attrattiva
che sentiva per la solitudine, Pietro di Morrone si ritirò ancora una
volta a vita eremita sulla Maiella (1284), lasciando ad altri la
direzione di 36 monasteri popolati da circa 600 monaci e oblati. Visse
nella sua cella fino a tredici mesi di seguito senza uscirne. Ogni
anno faceva quattro quaresime. Riservava alla preghiera tutti i
mercoledì e venerdì. Negli altri giorni riceveva i numerosi laici che
andavano a consultarlo. Non contento di prodigare ai visitatori buoni
consigli, organizzò per essi una pia associazione, con l'impegno di
recitare ogni giorno un certo numero di Pater, amarsi vicendevolmente,
evitare il peccato e visitare i poveri e i malati, per soccorrere i
quali non esitò a far vendere i calici e gli ornamenti preziosi delle
chiese del suo Ordine. Alla morte
di Niccolò IV (1292) la Santa Sede rimase vacante per ventisette mesi
perché gli undici elettori erano divisi tra i due partiti dei Colonna
e degli Orsini, e il re Carlo II di Napoli (+1309), figlio e
successore di Carlo D'Angiò, fratello di S. Luigi IX, re di Francia,
brigava perché fosse scelto un cardinale di suo gradimento. L'elezione
di Pietro da Morrone, la cui storia sembra una leggenda, è la più
strana che si ricordi. Nella primavera del 1294 il re di Napoli si era
recato a Perugia e aveva parlamentato con i cardinali radunati in
conclave. Di lì era passato a Sulmona ove concesse dei privilegi ai
seguaci del Morrone il quale, poco dopo, scrisse una lettera al
cardinale Latino in cui minacciava terribili castighi da parte di Dio
se, entro quattro mesi, il sacro Collegio non avesse eletto il papa.
Tutti avevano sentito parlare dell'eremita come di un taumaturgo, ma
nessuno lo conosceva di vista. Convinti che fosse la persona più adatta a
governare la Chiesa, su proposta del cardinal Latino gli diedero il
voto. Una commissione di prelati e
di notai fu mandata sulle montagne della Maiella per chiedere al
Morrone se voleva accettare. I legati trovarono in una spelonca un
vecchio di oltre ottant'anni, pallido, emaciato dai digiuni, vestito di
ruvido panno e calzato di pelli d'asino. Gli comunicarono l'elezione
al papato, ma egli l'accettò soltanto perché pressato dai confratelli.
La notizia dello straordinario avvenimento giunse alla corte di Carlo
II, che si precipitò a Sulmona nell'intento di rendere l'eletto
docile strumento dei suoi interessi. Contrariamente al parere dei
cardinali, che lo invitarono a Perugia per sottrarlo alle suggestioni
dell'Angioino, egli decise di fermarsi un po' di tempo all'Aquila ove,
sull'esempio di Cristo, volle entrare seduto su di un asino, scortato
da Carlo II e da suo figlio, che sorreggevano le briglie. Davanti
la chiesa dì Santa Maria di Collemaggio che Pietro aveva fatto
costruire (1287), il 29-8-1294 ricevette in testa la tiara già di
Innocenzo III, e il nome di Celestino V. Ben presto però si dileguarono
le speranze riposte in lui, ignaro di latino, digiuno di scienze
teologiche e giuridiche, privo di esperienza politica e diplomatica. Il
pontefice, sordo ai consigli dei cardinali, s'impigliò ogni giorno più
nelle reti che ambiziosi principi e astuti legulei gli tesero.
Cominciò a dispensare favori spirituali senza discernimento,
specialmente alle chiese del suo Ordine; pensò di mutare in Celestini
gli altri monaci; cercò di obbligare i benedettini di monte Cassino a
indossare la tonaca grìgia dei suoi religiosi; permise ai Francescani
Spirituali di separarsi dagli altri sotto il nome di "Poveri Eremiti"
non considerando in essi che l'austerità della vita. "Nella sua
pericolosa semplicità" (L. Muratori) concesse al re di Napoli il
prelievo di due decime sui beni della Chiesa francese e inglese perché
potesse finanziare le sue spedizioni militari; la nomina di suo
figlio Luigi, di ventun anni, all'arcivescovado di Lione; la nomina di
dodici cardinali, di cui sette francesi, due napoletani, e nessuno
romano. In ottobre Celestino V
decise di abbandonare l'Aquila, ma invece di prendere la via di Roma,
contro il parere dei cardinali, si lasciò trascinare a Napoli dal re
suo amico e protettore. I curiali durante i cinque mesi del suo
pontificato approfittarono della sua inesperienza per trafficare e
vendere grazie e privilegi, mentre i furbi ridevano dicendo che il
papa comandava "nella pienezza della sua semplicità". Non volendo
perdere nulla delle sue abitudini claustrali, in avvento, in un angolo
del Castello Nuovo, Celestino V si fece costruire in legno una
colletta in cui passare la quarantena in preparazione al Natale.
Jacopone da Todi frattanto gl'indirizzava le sue frecciate poetiche:
"Che farai, Pier di Morrone? - sei venuto al paragone. - Vedremo
l'operato - che in cella hai contemplato. - Se il mondo è da te
ingannato, - seguirà maleditione". Colpito dal disordine che
s'infiltrava nella Chiesa a motivo della sua incapacità amministrativa,
Celestino V si rese conto di non essere all'altezza del suo compito,
motivo per cui si sentiva gemere, in preda ai rimorsi: "Dio mio, mentre
regno sulle anime, ecco che perdo la mia". Consultò
allora esperti canonisti, tra cui Benedetto Gaetani, e tutti gli
risposero che il papa poteva abdicare per sufficienti motivi. Appena i
napoletani ebbero sentore che un papa così buono e così facile a
lasciarsi ingannare stava per abbandonarli, invasero Castel Nuovo.
Celestino V riuscì a calmarli a stento con vaghe promesse e
l'autorizzazione di fare preghiere e processioni per chiedere a Dio più
luce. Dopo aver preparato con il Gaetani l'atto di rinuncia al potere
pontificale e una costituzione che riconosceva al pontefice la facoltà
di dimettersi, il giorno di S. Lucia convocò il concistoro, ordinò ai
presenti di non interromperlo, poi con voce alta e ferma lesse la sua
rinuncia libera e spontanea al potere delle somme chiavi "per causa
di umiltà, di perfetta vita e preservazione di coscienza, per
debolezza di salute e difetto di scienza, per ricuperare la pace e la
consolazione dell'antico vivere'". Fra le lacrime degli astanti depose
le insegne papali per rivestirsi del suo vecchio saio. Bene ha
scritto E. Casti in occasione del VI centenario dell'incoronazione di
Celestino V; "L'abdicazione di lui non fu ne una viltà, ne un atto di
eroismo; fu il semplice compimento dello stretto dovere che incombe a
chiunque ha assunto un ufficio sproporzionato alle proprie forze. Il
dovere morale di restare al suo posto non poteva obbligare perché in
contrasto con l'interesse più imperioso del bene comune". Il
24 dicembre fu eletto papa il cardinal Gaetani col nome di Bonifacio
VIII. Uno dei suoi primi atti fu di annullare tutti i favori accordati
dal suo predecessore il quale bramava far ritorno al suo eremo, mentre
il papa voleva che lo seguisse in Campania per impedire eventuali
scismi o ribellioni. Di mala
voglia egli si mise in cammino con l'abate di Monte Cassino. Giunto a
San Germano approfittò della sosta per farsi dare un cavallo e fuggire
a Monte Morrone, dove per due mesi rimase nascosto alle ricerche dei
messi papali. Tentò in seguito la fuga in Grecia, ma una tempesta lo
sospinse sul litorale di Vieste. Tradotto nel castello di Fumone vi
morì il 19-5-1296 cantando salmi. Clemente V lo canonizzò nel 1313. Le
sue reliquie sono venerate a L'Aquila, nella chiesa di Santa Maria di
Collemaggio.
Autore: Guido Pettinati
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