giovedì 30 settembre 2021
Caro Gesù 🙏
La POETESSA di Oggi Mariannina Coffa Caruso 📖 🖋
Amore
Datemi un cor che all’alito
Dell’amor mio s’ispiri,
Che i suoi più dolci palpiti
Confonda ai miei sospiri,
Un cor che la sua vita
Senta al mio core unita,
Che ai miei segreti spasimi
Conceda il suo dolor!
Datemi un cor che intendere
Possa il mio spirto anelo,
Ch’abbia il candor degli angeli
Ch’ami qual s’ama in cielo.
Oh! Solo allor potrei
Credere ai sogni miei,
Viver potrei nell’estasi
Del canto e dell’amor.
Mariannina Coffa Caruso
Gregorio
30 settembre San Gregorio Illuminatore
Vescovo, Apostolo degli Armeni
257 - 332
Emblema: Bastone pastorale
A Napoli, nel centro storico vi è una strada ormai celebre in tutti gli itinerari turistici, specie in periodo natalizio, per la produzione, esposizione e vendita dei “pastori” e minuterie per il presepe, firmate anche da famosi artigiani; questa strada è via S. Gregorio Armeno, il titolo proviene dalla chiesa intitolata allo stesso santo che si trova a metà percorso, antichissima testimonianza della presenza di monaci orientali dal 930, rifatta nel 1580 con grandi applicazioni barocco-orientali. Nella stessa chiesa oltre che una parte delle reliquie del santo è conservato anche il corpo di s. Patrizia, veneratissima dal popolo napoletano, la chiesa e l’attiguo convento con artistico chiostro è tenuto dai primi anni del millenovecento dalle Suore Crocifisse Adoratrici dell’Eucaristia. S. Gregorio nacque in Armenia nel 260 circa, scampò alla strage della sua famiglia ordinata dal re armeno Kosrov e allevato da una nutrice cristiana che lo portò a Cesarea di Cappadocia, educato cristianamente sposò un’altra cristiana Giulitta da cui ebbe due figli Aristakes e Verdanes, divenuti poi tutti e due santi. Ordinato sacerdote a Cesarea entrò nel seguito del principe ereditario dell’Armenia Tiridate, in esilio dopo la morte violenta del padre Kosrov. Dopo la vittoriosa campagna di Galerio contro i persiani (297) cui aveva partecipato anche Tiridate, l’imperatore Diocleziano poté reintegrare sul trono armeno con l’aiuto delle sue legioni il principe Tiridate, Gregorio lo seguì con tutto il seguito, ma quando questi volendo festeggiare il suo ritorno in una solenne cerimonia volle offrire l’incenso alla dea Anahita, il cui famoso santuario era ad Eriza (Erzincan) sul loro percorso, Gregorio rifiutò di farlo e pertanto fu imprigionato e torturato. Ebbe ben quattordici specie di torture, una più crudele dell’altra, infine Tiridate lo fece rinchiudere in un celebre carcere della capitale chiamato Khor Virap (pozzo profondo) dove rimase per ben quindici anni dal 298 al 313 mentre infuriava la persecuzione contro i cristiani. La conversione dell’Armenia al cristianesimo ebbe luogo in seguito ad una miracolosa guarigione dello stesso re Tiridate; avendo fatto uccidere la vergine Hripsime insieme ad altre compagne cristiane, egli si ammalò di tristezza perché se ne era innamorato, ma lei non aveva acconsentito, la sua malattia viene descritta come una trasformazione in cinghiale come capitò al re Nabucodonosor, si può dedurre che si trattasse di licantropia. Nell’afflizione generale della corte, la sorella del re sognò che l’incarcerato Gregorio avrebbe potuto guarirlo, liberato e condotto a corte egli risanò il re ed esortò lui ed i principi ad accettare la religione cristiana catechizzandoli per sei mesi e ottenendone la conversione, al punto che il re fece distruggere gli idoli e abolì il paganesimo. Nel contempo Gregorio trasformò i templi in chiese erigendo altari e croci, rimandando però la loro consacrazione come pure il battesimo del re, perché lui non era un vescovo. Per questo motivo Tiridate e i principi lo elessero come pastore supremo dell’Armenia e lo accompagnarono con una foltissima schiera di cavalieri fino a Cesarea di Cappadocia per ricevere la consacrazione dalle mani del vescovo della metropoli Leonzio, il quale convocato il Sinodo di Cesarea (314) cui parteciparono venti vescovi, lo consacrò con grande gioia e festa di tutti i convenuti e del popolo, per lui e per la conversione dell’Armenia. Nel viaggio di ritorno vi fu uno scontro armato con la città ancora pagana di Astisat dove Gregorio prese possesso dell’antica sede vescovile vacante a causa delle persecuzioni; sulle sponde dell’Eufrate egli battezzò molti principi e soldati e lo stesso re, sua moglie e sua sorella, che gli erano venuti incontro. Gregorio organizzò la rinascita della Chiesa armena consacrando e mandando nuovi vescovi e sacerdoti nelle rinate diocesi, i suoi due figli Aristakes e Vertanes, rimasti a Cesarea furono chiamati presso il padre ad aiutarlo, sebbene riluttanti perché dediti alla via d’anacoreta, Aristakes fu nominato suo ausiliare e quando Gregorio alternando il suo ufficio di vescovo con periodi di ritiro in eremitaggio, lo sostituiva nel governo della diocesi, ma egli morì prima del padre, mentre il fratello Vertanes successe nell’incarico dopo la morte di Gregorio. La ‘Vita’ racconta anche di un viaggio di Gregorio fatto insieme a Tiridate a Roma per far visita all’imperatore Costantino e nell’occasione si incontrò anche con papa Silvestro da cui si racconta ebbe il privilegio del titolo di patriarca d’Oriente. La Chiesa armena pur tra tante vicissitudini e persecuzioni, l’ultima quella del regime sovietico, è sempre stata fedele a Roma donando alla Chiesa figure di santi e martiri e una fede genuina in un contesto molto influenzato ed osteggiato dalle Chiese ortodosse. Gregorio morì all’incirca nell’anno 328 mentre era in un eremo e fu sepolto in un suo podere a Thordan, villaggio della regione di Daranalik’ Il suo nome viene spesso ricordato nelle preghiere liturgiche e durante la santa Messa, la Chiesa armena dedica al suo santo “Illuminatore” tre feste liturgiche. Nel calendario marmoreo di Napoli scolpito nel IX sec. il suo nome compare al 2 e 3 dicembre, le sue reliquie sono sparse un po’ in tutti i luoghi che maggiormente lo venerano, il cranio è a Napoli, altre a Nardò, alcune stavano a Costantinopoli ma la più celebre “il braccio destro di Gregorio” è in Armenia e con essa viene benedetto ogni ‘Katholicos’ eletto.
Autore: Antonio Borrelli
mercoledì 29 settembre 2021
Pace
Udivo nel piccolo fosso
sommesso gracchiare di rane;
passava tra i rami di bosso
sussurro di preci lontane.
Rideva nel cielo profondo
pensosa la pallida luna;
veniva, da lungi, giocondo
un cantico lieve di cuna.
Dina Ferri
Alla rondine
Dimmi di mare rondine bruna,
dimmi di mare, tu che lo sai;
quando ne’ cieli sale la luna,
cosa le stelle dicono mai?
Cosa ti dice l’onda turchina
quando la notte veglia sui mari?
Forse nel cuore di pellegrina
sogni la gronda de’ casolari?
Dina Ferri
Dina Ferri
è stata una poetessa italiana.
Nacque ad Anqua di Radicondoli, Siena il 29 settembre 1908 da una famiglia di poveri contadini. Poco dopo la sua nascita, i genitori si trasferirono in un podere a Ciciano nel Comune di Chiusdino. La piccola Dina fu mandata presto dietro il gregge delle pecore; dopo i 9 anni frequentò le prime classi elementari della scuola del paese, ma dopo tre anni i genitori le fecero interrompere lo studio per farla ritornare a pascolare gli animali. Appassionata dello studio, prese qualche lezione di nascosto da una compagna di classe. Senza conoscere la metrica, iniziò a scrivere le sue impressioni poetiche che la bellezza della natura le produceva nell’animo. L’11 gennaio 1924 si tagliò tre dita della mano destra con il trinciafieno; per lenire il dolore della piccola, i genitori la mandarono di nuovo alla scuola elementare, per frequentare la quale fece a piedi tutti i giorni circa dieci chilometri di strada. Notando il suo talento, l’ispettore scolastico persuase i genitori a inviare la bambina all’Istituto Magistrale e ottenne per lei un sussidio annuo dal Monte dei Paschi. Nel 1927 iniziò i corsi nell’Istituto di Santa Caterina di Siena, tornando a casa per le vacanze natalizie ed estive ed aiutando i genitori nella cura del gregge. A Siena, nonostante la rigida vita di Collegio, conobbe i più bei monumenti e l’arte della città e il 1º aprile 1928 assisté con commozione per la prima volta nella sua vita ad un concerto di Arthur Rubinstein che volle conoscerla. Il suo talento fu scoperto dal critico Aldo Lusini che pubblico su La Diana un saggio delle poesie da lei composte e che ebbero subito una larga diffusione. La notorietà non la distolse dagli studi. Nel 1929 fu promossa alle Magistrali superiori. Un grave attacco d’influenza nell’inverno scosse la sua salute; in dicembre si allettò definitivamente e a febbraio fu portata all’Ospedale di Siena dove rimase in agonia per quatto mesi. Il 18 giugno 1930 a soli 22 anni giunse anche per lei la bella Signora dall’abito nero che addormenta l’ultima volta con la carezza delle sue gelide dita - così chiamava la morte.
Dina Ferri teneva sempre un piccolo libro con sé, sul quale scriveva i suoi pensieri e le poesie. L’aveva intitolato Quaderno del nulla. Fu pubblicato nel 1931 dall’editore Treves e in ristampa nel 1999.
L'Angelo dei bambini
martedì 28 settembre 2021
Lode e gloria a Te, Signore Gesù.🙏
Lode e gloria a Te, Signore Gesù.
Lode e gloria al tuo santo Nome.
Sii benedetto o Signore perché hai cura di noi.
Sii benedetto perché sei la nostra salvezza.
Ti ringrazio, Signore, perché sei Buono e Santo,
Ti ringrazio, Signore, perché sei Misericordioso.
Effondi su noi il tuo Santo Spirito,
rinnovaci nel tuo Volere e confermaci nella tua grazia.
Spirito Santo, Spirito d’Amore, spira in noi,
prendi possesso del nostro essere e regna sovrano.
Spirito d’infanzia spirituale, rendici piccoli e innocenti,
spirito d’obbedienza, rendici docili e amanti del Padre Celeste.
Padre Santo, Padre nostro, Padre di tutti, Padre……
Rendici figli tuoi in spirito e verità e compi la tua adorabile Volontà.
Gloria al Padre, gloria al Figlio, gloria allo Spirito Santo.
Sia la nostra vita un unico atto di rendimento di grazie.
Amen.
Foglie morte
Cadono giù le foglie. Sono stanche
hanno visto tant'acqua e tanto sole!
Sbocciate con le tenere viole,
cadono prima delle nevi bianche.
La loro vita dura una stagione,
cadono a sciami, a sciami, frusciando,
i bimbi le sparpagliano passando
o le colgono a farsene corone.
Il vento fa con esse il mulinello
soffia e fischia con malinconia
esse fan tutti gli anni questa via
partono col brutto e tornano col bello.
Tornano sulla terra come un fiore
ogni rosa compare e poi sparisce
è la foglia che a marzo rinverdisce
non è più quella che oggi casca e muore.
Là nella macchia il vecchio boscaiolo
col rastrello lieto le raduna
saranno letto per la mucca bruna
saranno fiamme sotto al suo paiolo
Rosalia Calleri
lunedì 27 settembre 2021
28 settembre San Venceslao Martire
Stochow, Praga, Repubblica Ceca, ca. 907 - Stará Boleslav, Repubblica Ceca, 929/935
Patronato: Patrono della Boemia
Etimologia: Venceslao = gloria della corona (della reggia), dal polacco
C’è un
luogo d’Europa che appartiene alla memoria di tutto il mondo, insieme a
una data: piazza San Venceslao di Praga, 1968. Essa ricorda la
“primavera”, col grido del popolo ceco per la libertà, e poi il lutto
per l’invasione comunista del Paese, nell’estate dell’oppressione. Le
gioie e i dolori di tutti si esprimevano qui, intorno alla statua di
san Venceslao, eretta alla fine dell’Ottocento. Venceslao
(Václav in lingua ceca) è figlio di Vratislav duca di Boemia: perde
il padre da ragazzo e gli succede nel governo, sia pure con la
reggenza di sua madre Drahomira. E’ cristiano, educato dalla nonna
paterna Ludmilla, che la Chiesa venera come santa, uccisa a causa della
sua fede per ordine della nuora Drahomira, madre di Venceslao.
Questi, rispetto ai prìncipi del tempo, è tra i più colti: ha studiato
anche il latino. Una volta
assunto il potere effettivo, Venceslao si adopera per la
cristianizzazione del Paese, chiamandovi missionari tedeschi, perché
questo fa parte della sua linea generale di governo: avvicinare la
Boemia all’Europa occidentale e alla sua cultura (anche se non mancano
conflitti con regnanti germanici). La
tradizione fa di lui un modello del coraggio generoso: durante la
lotta contro un duca boemo, Venceslao gli propone di risolvere la
controversia con un duello tra loro due, in modo da non sacrificare
tante vite di soldati; e il nemico si riconcilia con lui. La sua
giovane età e il suo stile ne fanno un modello per molti suoi sudditi,
ma proprio la vasta popolarità mette contro di lui – per motivi
religiosi e di potere – una parte della nobiltà, che obbedisce (o che
si è imposta) al suo fratello minore Boleslao. Di
qui, una congiura per ucciderlo, dando tutto il ducato boemo al
fratello. Questi, non osando aggredire Venceslao in Praga, lo invita
nel suo castello di Stará Boleslav. Si pensa di ucciderlo durante il
pranzo, ma certe parole di Venceslao fanno temere che abbia scoperto
il complotto. Allora lo si aspetta quando va in chiesa (da solo, come
sempre) per recitarvi la preghiera delle Ore. E qui viene
assassinato. Dice una leggenda che Boleslao tentò per primo di
colpirlo, ma Venceslao reagì buttandolo a terra e facendogli cadere
la spada; poi generosamente la raccolse e la volle restituire al
fratello in segno di perdono. Questo
fu il suo ultimo gesto di grandezza, troncato dai sicari di Boleslao
che lo colpirono a morte tutti insieme. Secondo un’altra leggenda,
nessuno riuscì a lavare il suo sangue, sparso sul pavimento in legno.
Il corpo fu poi portato a Praga e sepolto nella chiesa di San Vito.
Già nel secolo X Venceslao fu oggetto di culto, e nel secolo
successivo diventò il simbolo dello Stato boemo. Più tardi la Chiesa
scriverà il suo nome nel Martirologio Romano, venerandolo come martire
per la fede.
La Chiesa lo venera come santo dal 1729.
Autore: Domenico Agasso
Preghiera a Gesù 🙏
Tu che tutto puoi,
ti chiedo di non scordarti di me
umile peccatore e di concedermi
la grazia tanto attesa e desiderata.
Tu che a causa dei nostri peccati,
hai portato per primo, il peso
della croce con tanto sacrificio;
illumina il mio percorso e rendimi forte
nell’affrontare tutte le croci a me assegnate.
Dammi il coraggio per accettare la tua
volontà ; ho bisogno del tuo sostegno e
di sentire vicino il tuo amore.
Ti ringrazio per tutto quello sin ora mi hai concesso
e per tutto quello che inaspettatamente mi darai …
Ti imploro e mi inginocchio dinanzi
a te, sperando in un tuo segno, in una tua risposta;
fà in modo che la mia
richiesta venga esaudita,
Amen.
I' ho sì gran paura di fallare
I' ho sì gran paura di fallare
verso la dolce gentil donna mia,
ch'i' non l'ardisco la gioia domandare
che 'l mi' coraggio cotanto disìa;
ma 'l cor mi dice pur d'assicurare,
per che 'n lei sento tanta cortesia,
ch'eo non potre' quel dicere né fare,
ch'i' adirasse la sua segnoria.
Ma se la mia ventura mi consente
ch'ella mi degni di farmi quel dono,
sovr'ogn'amante viverò gaudente.
Or va', sonetto, e chiedile perdono
s'io dico cosa che le sia spiacente:
ché, s'io non l'ho, già mai lieto non sono.
Cecco Angiolieri
S’i’ fosse foco, arderei ‘l mondo
s’i’ fosse vento, lo tempestarei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i’ fosse Dio, mandereil en profondo;
s’i’ fosse papa, serei allor giocondo,
ché tutti ‘ cristiani embrigarei;
s’i’ fosse ‘mperator, sa’ che farei?
a tutti mozzarei lo capo a tondo.
S’i’ fosse morte, andarei da mio padre;
s’i’ fosse vita, fuggirei da lui:
similemente faria da mi’ madre.
S’i’ fosse Cecco com’i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
le vecchie e laide lasserei altrui.
se fossi vento, lo sconvolgerei con tempeste;
se fossi acqua, lo annegherei;
se fossi Dio, lo farei sprofondare.
Se fossi papa, allora sarei allegro,
perché potrei mettere nei guai tutti i cristiani;
se fossi imperatore, lo saprei fare proprio bene;
taglierei la testa di netto a tutti quanti.
Se fossi morte, andrei da mio padre;
se fossi vita, non rimarrei con lui;
lo stesso farei con mia madre.
Se fossi Cecco, come sono e sono sempre stato,
terrei le donne giovani e belle,
e lascerei quelle zoppe e vecchie agli altri.
Cecco Angiolieri
Francesco Angiolieri, detto Cecco
(Siena, 1260 circa – Siena, 1311/1313),
è stato un poeta e scrittore italiano.
Cecco nacque a Siena da una famiglia particolarmente benestante, intorno al 1260. Il padre era il banchiere Angioliero degli Angiolieri, figlio di Angioliero detto "Solafica"; fu cavaliere, fece parte dei Signori del Comune nel 1257 e nel 1273 (dopo essere stato priore per due volte) ed appartenne all'ordine dei Frati della Beata Gloriosa Vergine Maria (i cosiddetti «Frati Gaudenti»). La madre era monna Lisa, appartenente alla nobile e potente casata dei Salimbeni, anch'ella iscritta al suddetto ordine. Si presume che il giovane Cecco trascorse la sua fanciullezza a Siena, dove ricevette anche una prima educazione. Di famiglia tradizionalmente guelfa, nel 1281 Cecco figurò tra i Guelfi (pro Papa) senesi all'assedio dei concittadini ghibellini (pro impero) asserragliati nel castello di Torri di Maremma nei pressi di Roccastrada, e fu più volte multato per essersi allontanato dal campo senza la dovuta licenza. Da altre multe fu colpito a Siena l'anno successivo, l'11 luglio 1282, per essere stato trovato nuovamente in giro di notte dopo il terzo suono della campana del Comune, violando pertanto il coprifuoco («quia fuit inventus de nocte post tertium sonum campane Comunis»). Un ulteriore provvedimento lo colpì nel 1291 in circostanze analoghe; oltretutto, nello stesso anno fu implicato nel ferimento di Dino di Bernardo da Monteluco, pare con la complicità del calzolaio Biccio di Ranuccio, ma solo quest'ultimo fu condannato Militò come alleato dei fiorentini nella campagna contro Arezzo nel 1289, conclusasi con la battaglia di Campaldino; è possibile che qui abbia incontrato Dante Alighieri, che pure figurava tra i combattenti dello scontro. Il sonetto 100, datato tra il 1289 e il 1294, sembra confermare che i due si conoscessero, in quanto Cecco si riferisce a un personaggio che entrambi dovevano ben conoscere (Lassar vo' lo trovare di Becchina, / Dante Alighieri, e dir del mariscalco); questo mariscalco vanesio tra le donne fiorentine, anch'egli impegnato a Campaldino, è stato identificato con un tal Amerigo di Narbona, «giovane e bellissimo del corpo, ma non molto sperto in fatti d'arme» (Dino Compagni, Cronica delle cose occorrenti ne' tempi suoi, I, 7). Intorno al 1296 fu allontanato da Siena, a causa di un bando politico. Si desume dal sonetto 102 (del 1302-1303), indirizzato a Dante allora già a Verona, che in quel periodo Cecco si trovasse a Roma (s'eo so' fatto romano, e tu lombardo). Non sappiamo se la lontananza da Siena dal 1296 al 1303 fu ininterrotta. Il sonetto testimonierebbe anche della definitiva rottura tra Cecco e Dante (Dante Alighier, i' t'averò a stancare / ch'eo so' lo pungiglion, e tu se' 'l bue). Tuttavia non sono attestate risposte (tantomeno proposte) dantesche, per cui, se tenzone fra i due vi fu, ci rimane solo la parte composta da Cecco (e non sappiamo nemmeno se è tutta, peraltro). Inoltre, nelle opere di Dante, Cecco non è mai nominato, né suoi componimenti sono citati. Nel 1302 Cecco svendette per bisogno una sua vigna a tale Neri Perini del Popolo di Sant'Andrea per settecento lire ed è questa l'ultima notizia disponibile sull'Angiolieri in vita. Proprio per questa ragione si oppose a ogni forma di politica proclamandosi persona libera e indipendente; si ritiene che questa sua imposizione fosse dovuta al bando politico che lo allontanò da Siena. Dopo il 1303 fu a Roma, probabilmente sotto la protezione del cardinale senese Riccardo Petroni. Da un documento del 25 febbraio 1313 sappiamo che cinque dei suoi figli (Meo, Deo, Angioliero, Arbolina e Sinione; un'altra figlia, Tessa, era già emancipata) - rinunciarono all'eredità perché troppo gravata dai debiti. Si può quindi presupporre che Cecco Angiolieri sia morto intorno al 1310, forse tra il 1312 e i primi giorni del 1313. La tradizione lo vuole sepolto nel chiostro romanico della chiesa di San Cristoforo a Siena.
27 settembre Sant' Elzeáro di Sabran🙏
domenica 26 settembre 2021
Gesù 🙏
Il POETA di Oggi Thomas Stearns Eliot 📖 🖋
Vorrei essere la pioggia
Son l’autunno
Son l’autunno, mi presento
son tornato e son contento
quando arrivo l’estate va via
ma anche io ho la mia allegria;
lei ha i suoi fiori in mezzo ai prati,
io i miei alberi colorati.
Son la stagione dei mille colori,
dipinta anche da molti pittori.
I miei paesaggi son variopinti,
sono reali ma sembrano finti.
La frutta poi, è una meraviglia,
piace proprio ad ogni famiglia.
C’è anche il bravo contadino
che raccoglie l’uva per farne buon vino.
I funghi nel bosco son numerosi
ma stiamo attenti che non sian velenosi.
Gli animaletti presto andranno a dormire
e ora fanno le scorte a non finire.
Io la natura preparo al riposo
ma dirvi di più adesso non oso.
Maestra Franca
Veder cadere le foglie
San Nilo riceve la benedizione dal Crocifisso
26 settembre San Nilo da Rossano
Rossano Calabro (CS), 910 -
Monastero di Sant’Agata, Grottaferrata (RM), 26 settembre 1004
L’Italia
meridionale conosce i monaci d’Oriente con la loro liturgia al tempo
del dominio bizantino. Poi l’espansione araba (che si estende alla
Sicilia) ve ne spinge altri: la Calabria, in particolare, si popola di
comunità guidate dalla regola di san Basilio, che attirano anche
discepoli del posto. Come appunto questo calabrese di Rossano, di nome
Nicola. Si sa che era sposato e con una figlia; poi lo si ritrova monaco
col nome di Nilo, e sul fatto gli storici non sono concordi. Nilo
vive dapprima in comunità, poi si fa eremita per bisogno di
solitudine, col consueto rigore nel cibo e nel riposo, con dedizione
totale a preghiera e studio. Legge i Padri della Chiesa, compone inni,
trascrive testi con grafia rapida ed elegante. Indossa magari per un
anno intero lo stesso abito, riempiendosi di pulci. Ma è felice, è
realizzato. Non cerca discepoli,
ma questi arrivano, e addio solitudine. Diventa maestro di nuovi monaci
presso Rossano, con un metodo duramente selettivo, perché non vuole
gente qualunque. Devono essere maestri di ascesi, studiosi, eccellenti
anche in calligrafia e canto. Quando però si accorge di essere ormai
una sorta di autorità locale, e che si parla di lui come possibile
vescovo, fugge in territorio longobardo, verso il principato di Capua.
Qui, per quindici anni, Nilo educa monaci di rito orientale, mantenendo
amabili rapporti con i monaci “latini”, i benedettini di Montecassino,
che lo aiutano cordialmente. Trascorre
altri dieci anni presso Gaeta, dove ha offerto ai suoi monaci una sede
disagiata e sempre tanto lavoro. Qui vede finire il primo Millennio
cristiano. E di qui parte, novantenne, per dare vita a un’altra
fondazione: l’abbazia di Grottaferrata presso Roma, che sarà sempre viva
e operosa alla fine del secondo Millennio, nella sua linea di
preghiera e cultura, con la scuola di paleografia greca, la tipografia,
la biblioteca; centro vivo di operosità ecumenica. Lui però fa solo in
tempo a indicarne il luogo e a ottenere il terreno, presso la cappella
detta Cryptoferrata. Poi si spegne nel vicino monastero greco di
Sant’Agata. Il suo discepolo e
biografo, Bartolomeo, narra che nel 998 Nilo corre a Roma per salvare
il vescovo Giovanni Filagato, suo conterraneo, fatto antipapa dal
nobile romano Crescenzio e suo complice nella rivolta contro il papa
Gregorio V e l’imperatore Ottone III suo cugino. La rappresaglia di
Ottone è degna della ferocia dei tempi (che hanno visto anche papi
assassinati). Uccisi Crescenzio e i suoi, su Filagato si infierisce con
atroci sevizie. "La biografia narra", scrive Gregorovius, "che ... le
preghiere del santo non trovarono ascolto. Nilo lasciò Roma. Ma prima
profetizzò all’imperatore e al papa che la maledizione del cielo prima o
poi avrebbe colpito i loro cuori crudeli". Gregorio V muore dopo un
anno, Ottone III dopo quattro, e ne ha ventitré.
Autore: Domenico Agasso
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Un'Atlantide tutta italiana Fabbriche di Careggine è un paese medievale sommerso da un lago artificiale In Italia ci sono oltre 5mila &q...
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