San Pietro Claver
Sacerdote
Patronato: Negri
Etimologia: Pietro = pietra, sasso squadrato, dal latino
Aethiopum
semper servus: all’epoca sua si chiamavano “etiopi” tutti i neri. E
lui, dicendosi “semper servus”, si impegna a vivere solo per loro. Cioè
per i neri d’Africa, portati schiavi nell’America meridionale. Questo è
il programma che s’impone Pietro Claver nell’aprile 1622 a Cartagena
(Nueva Granada, detta poi Colombia) nel compiere la “professione
definitiva”, l’atto che segna per sempre la sua piena appartenenza alla
Compagnia di Gesù. Nato presso Barcellona, è entrato da ragazzo nel
collegio dei gesuiti. All’università diretta da loro, nella capitale
catalana, ha poi fatto gli studi umanistici, pronunciando i primi voti
nel 1604. Nel
1605-1608 ha studiato filosofia a Palma di Maiorca. E qui lo hanno
aiutato le “lezioni” del portinaio Alfonso Rodriguez: è un mercante di
Segovia che, perduta la famiglia, presta lietamente l’umile servizio al
collegio dei gesuiti. Ma col tempo il suo stanzino diventa un’altra
aula, e lui un maestro di spiritualità, consultato da sapienti e
potenti e soprattutto dai giovani allievi come Pietro Claver. Che esce
da quella portineria orientato. Inizia
gli studi di teologia a Barcellona e li completa a Cartagena di
Colombia (dove diventa sacerdote nel 1616). Qui sbarcano migliaia di
schiavi neri, quasi tutti giovani: ma invecchiano e muoiono presto per
la fatica e i maltrattamenti; e per l’abbandono quando sono invalidi.
Tra questa umanità la Compagnia di Gesù ha mandato i suoi missionari.
Unitosi a loro, Pietro Claver conosce il mondo della sofferenza e della
disperazione; discerne la volontà di Dio, che il portinaio di Maiorca
gli insegnava a cercare: Dio vuole che egli serva gli schiavi con tutte
le sue forze, ogni giorno della sua vita. Così
si ritrova a vivere la loro sofferenza, e a combatterla. Sta con loro
per nutrire e per curare, imperturbabile ed efficiente anche nelle
situazioni più disgustose. A questa gente che non ha nulla, che non è
nulla, insieme al soccorso offre il rispetto. Si sforza di risvegliare
in ognuno il senso della sua dignità, senza il quale non potrebbe
parlare di Dio e del suo amore. Impara la lingua dell’Angola, parlata
da molti di loro, e crea un’équipe di interpreti per le altre lingue.
Ma si fa capire anche col suo modo di vivere, che è quello degli
schiavi più sfortunati: basta guardarlo per dargli fiducia, credere in
lui, confidarsi (e per questo gli si attribuisce il dono della “lettura
delle anime”). Basta guardarlo per capire e condividere la devozione
che egli predica per Cristo sofferente. Poi
si ammala, forse di peste. Sopravvive, ma senza più forze,
trascinandosi allo stesso modo dei vecchi schiavi. Deve sopportare i
maltrattamenti del suo infermiere: un nero. Anche in queste cose
bisogna scorgere la volontà di Dio. Muore a 74 anni e verrà canonizzato
nel 1888, con Alfonso Rodriguez, il fratello portinaio di Maiorca.
Autore: Domenico Agasso
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