Un grande santo del XVIII secolo animato dalla carità, evangelizzava i poveri con la musica
“Tu scendi dalle stelle o re del cielo e vieni in una grotta al freddo e al gelo”:
inizia così la più celebre canzone popolare di Natale, e può venir
voglia di conoscere chi sia l’autore e quale sia stata la sua vita. Alfonso Maria de Liguori,
questo il nome di colui che la ideò, nasce a Napoli nel 1696, da
famiglia nobile e ricca. Dati i natali, la sua vita sembrerebbe già
scritta: lo aspettano onori, ricchezze, potere. Suo padre nutre grandi
ambizioni per il figlio, e lui ha doti non ordinarie. Studia musica, ama
dipingere, si iscrive, a 12 anni, presso l’Università di Napoli, per divenire avvocato. Alfonso viene rivestito di una toga più grande di lui, già a 16. Se
l’aspirante è eccezionale, si può fare eccezione. Divenuto avvocato,
Alfonso si impone una moralità ferrea, in un mestiere difficile. Nello
stesso tempo frequenta varie confraternite, che lo portano per esempio a
visitare i malati, i sifilitici, i derelitti del grande ospedale di
Napoli, gli Incurabili. L’ ingresso “nella confraternita della
Visitazione portava per la prima volta il nostro brillante samaritano ad
avvicinare, a incontrare, a toccare con le sue mani, ogni settimana,
per anni, l’uomo a terra, spogliato, ferito, gemente nel fossato, ai
bordi del suo cammino di ricco. Per otto anni si piegherà su di lui con
orrore, con amore, con fede nella parola di Gesù: ‘Quello che fate al
più piccolo dei miei lo fate a me’” Alfonso fa parte anche della Confraternita di santa Maria della Misericordia,
i cui membri sono dediti al seppellimento degli indigenti, ai preti
pellegrini o stranieri, e a quelli detenuti per indegnità nelle carceri
dell’Arcivescovado. Alfonso per dieci anni, dal 1714 al 1726, gira per
Napoli, una volta la settimana, questuando per tutti questi. E’ nel
1723, quando la carriera sembra inarrestabile, che proprio mentre si
piega su un malato degli Incurabili, egli sente come una voce che lo
chiama: “Lascia il mondo e datti a me”. Nonostante la disperazione del
padre, Alfonso segue l’ispirazione e si avvia agli studi per il
sacerdozio, che sarà speso negli studi, negli scritti di morale (tra cui
la Theologia moralis, La pratica del Confessore e Apparecchio alla
morte), nelle missioni al popolo, nel confessionale, nelle celle dei
prigionieri, tra i lazzaroni, le prostitute, i poco di buono e i
peccatori di ogni genere… Qui, tra questa umanità dolorante, l’uomo di dottrina e di carità,
acquista quella saggezza, nel trattare non solo con i malati nel corpo,
ma anche con quelli nello spirito, che gli varrà il titolo, concesso da
Pio XII nel 1950, di “celeste patrono dei moralisti e dei confessori”.
Saggezza che consiste in quel santo equilibrio con cui il santo sa
affrontare il peccato: condannandolo, certamente, ma piegandosi anche
con benignità ed amore sui peccatori. Alfonso è un avversario del
rigorismo che trasforma la vita morale in terrorismo spirituale:
confessa, esige e perdona, impone penitenze che non siano eccessive e da
buon ammiratore di san Filippo Neri, di san Vincenzo de Paoli e di san
Francesco di Sales (quello che invitava a conquistare le anime con il
miele piuttosto che con il fiele), impara ad evangelizzare gli uomini
con la semplicità (voleva farsi intendere anche dalle “menti di legno”),
le devozioni popolari, la meditazione. Tenendosi lontano dallo zelo
amaro e dall’algida moralità giansenista. Alfonso invita i confratelli
predicatori a non dimenticare di inculcare il “timor di Dio”, ma
evitando gli eccessi, le “maledizioni”, perché le conversioni vere
nascono solo quando “entra nel cuore il santo amore di Dio”. Napoli è la città giusta per lui: così piena di
contraddizioni, di cultura e di miseria, di fede e di superstizione, di
processioni e di bestemmie e sacrilegi… Un impasto in cui l’umanità dà
il meglio e il peggio di sé, e in cui non si può raccogliere solo ciò
che brilla e riluce, a prima vista. Napoli è anche la città della musica che Alfonso ama sin da ragazzo
(abbandonerà il suo clavicembalo solo una volta divenuto vescovo) e che
sarà sempre, per lui, un modo per pregare ed istruire il popolo. Napoli è
infatti la città in cui i discepoli di san Filippo Neri, inventore
dell’Oratorio, frequentati da Alfonso già dal 1706, propongono di
continuo concerti religiosi e ‘ricreativi’; è la città in cui gli orfani
“scugnizzi” sono internati nei “Conservatori”, luoghi in cui, come dice
la parola, devono essere custoditi e magari educati anche attraverso la
musica. “A Napoli, scrive il già citato Mermet, la musica era per
il popolo una seconda lingua, così questi Conservatori divennero ‘gabbie
di usignoli’ e nel corso del XVII secolo si evolveranno
progressivamente in scuole musicali”. Da sant’Alfonso, “il più napoletano dei santi”, avvocato, moralista,
confessore, amico dei poveri, è nato dunque quel canto di cui si diceva
all’inizio; come pure quell’altro, bellissimo, in cui i Cieli fermano la
loro armonia, perché la Madonna canti la sua ninna nanna; e pure
quell’altro, così dolce, in dialetto napoletano: “Quanno nascette Ninno…”.
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