(Castellammare di Stabia, 10 gennaio 1888 – Napoli, 22 marzo 1950),
è stato un attore, commediografo, compositore, poeta e traduttore italiano.
Va precisato che il vero cognome del commediografo era Viviano e, solo quando l’attore napoletano divenne noto, il suo cognome d’origine fu mutato in Viviani, considerato dal medesimo Raffaele, più artistico e teatrale. La sua era una famiglia povera. Egli era figlio di una casalinga, Teresa Sansone e dell’omonimo Raffaele, un tempo cappellaio e addobbatore di feste; solo successivamente Viviani padre, divenne impresario e vestiarista teatrale dell’Arena Margherita di Castellammare di Stabia. In questo teatro recitavano i “Pulcinelli”, ma quando venne alla luce Papiluccio – appellativo col quale Viviani veniva chiamato dai suoi cari – il padre dovette far fronte ad un sequestro tributario che, portò l’intera famiglia Viviani ad una profonda crisi economica. Fu così che nel 1893, il padre del nostro giovane attore, raccogliendo il materiale di scena e i costumi che gli erano rimasti, decise di ricominciare una nuova vita nel capoluogo di Napoli. Qui Raffaele Viviani padre, costruì il teatro Masaniello presso Porta Capuana, e fu proprietario di piccoli teatri popolari. Giorno dopo giorno il padre trasmetteva al figlio Papiluccio la sua grande passione per il teatro. Infatti il piccolo Viviani iniziò all’età di quattro anni e mezzo a calcare le tavole dei palcoscenici popolari di Napoli. Egli indossò un abito da pupo (precisamente un frac) e, cantò in uno spettacolo marionettistico, fu allora che egli mostrò immediatamente le sue grandiose doti. Era appena un ragazzino quando gli morì il padre, e alla morte di questi fu costretto a ricoprire il difficile ruolo di “pater familias”. Doveva occuparsi della madre e della sorella Luisella, anch’ella giovane attrice e grande cantante. I tre vissero nella più cupa disperazione e miseria; Raffaele da buon scugnizzo, passava le sue intere giornate per le strade e per i vicoli di una Napoli pericolosa e criminale. Ma sapendo di avere un talento naturale, decise di sfruttarlo appieno. Nonostante fosse una persona analfabeta, che non sapeva né leggere e né scrivere, volle studiare da autodidatta per migliorarsi, e seppe riscattarsi socialmente e culturalmente dopo un lungo tirocinio da artista poliedrico quale egli era. In breve tempo fu ammirato e apprezzato in tutti i teatri d’Italia, d’Europa e oltre Oceano. Con la sua compagnia di teatro di prosa dialettale (fondata nel 1917 e diritta personalmente da lui fino al 1945) di cui fece parte anche la sorella Luisella, recitò ovunque, a Napoli, a Roma, Milano (1906), Genova (1907), Torino(1907), Alessandria (1907), Malta (1907), Budapest (1911), Parigi (1915), Tripoli (1925), Argentina, Uruguay, Brasile, ecc. Il suo debutto di attore-autore e regista, avvenne il 27 dicembre del 1917, al Teatro Umberto di Napoli, quando inscenò il dramma ‘O vico, “commedia in un atto in versi, prosa e musica”. Il suo teatro era fatto di creature vive e non di figure romanzesche-letterarie; sulla sua scena ci sono ritratti umani tragico-comici della società napoletana. Il suo non era un popolo piccolo borghese di matrice scarpettiana, ma era un popolo di scugnizzi, di spazzini, di guappi, di prostitute, di ladri, di miseri vagabondi, di venditori ambulanti, di vicoli, di rioni e di quartieri napoletani degradanti, dove si vive un’esistenza faticosa e penosa, di indigenza e di emarginazione. <>; - R. Viviani, Dalla vita alle scene. Il romanzo della mia vita; Guida Editori, Napoli, 1977 - Sulle tavole del suo palcoscenico diede vita dunque ai sentimenti, alle ansie, alle passioni, alle gioie, ai problemi, alle lotte, alle ingiustizie e alle rivendicazioni di questa umile plebe napoletana. Il popolo vivianesco diventa quindi metafora dell’intero universo. Don Rafele analizza attentamente la realtà sociale in cui vive, per poi inscenare sul palcoscenico vari e diversi personaggi popolari, o meglio quelli che noi, nei precedenti articoli, abbiamo definito “personaggi teatrali fissi”. Il teatro popolare di Viviani è costituito dunque da svariate macchiette – alcune di esse sono state da noi menzionate nell’articolo “Le macchiette di Raffaele Viviani”, in Il teatro popolare, . Pertanto le macchiette di Papiluccio presentano una vena crudelmente neorealistica e una comicità e un’ironia ricche di tragico sentimentalismo. Morì a Napoli il 22 marzo del 1950, dopo aver trascorso quattro lunghi mesi di sofferenza nel proprio letto a causa del suo male incurabile. La sua ultima volontà, prima di sospirare, fu quella di vedere la sua magica città dalle vetrine della sua finestra.
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