Disse il Signore all’acqua: “Va’! Cammina!”.
E l’acqua camminò. Di roccia in roccia,
mormorando discese per la china:
al filo d’erba diede la sua goccia,
un sorso alla ceppaia, e portò solo
con sé le foglie morte del querciolo.
Fu la fontana a valle, chiara e rozza,
che zampilla da un embrice slabbrato,
e negli orcioli ruvidi singhiozza;
poi scivolò dimessa nel fossato,
e fu più lungi la peschiera cheta,
che allaga i solchi magri e li disseta.
Dopo vagò smarrita d’orto in orto,
contesa dai bifolchi con le zappe,
qui imprigionata a piè d’un cespo morto,
lì trascinata tra le vizze rappe
del languido vivaio; e fece il bene
come il sangue nelle vene.
E alfine fu ruscello nel vallone:
scrosciando sulle pietre, tutta spume,
ai salici cantò la sua canzone;
e libera, sognò di essere un fiume
d’essere il lago placido e sereno
che ha il vento per respiro e il cielo in seno.
Ma, a un tratto, deviata dal suo corso,
rabbrividì sommessa in un canale,
e tutta grinze e tremiti nel dorso,
senza respiro corse uguale uguale,
finché, travolta in una cupa gola,
urlò schiacciata sotto un’aspra mola.
Ne uscì gemendo; s’indugiò fra i rovi,
debole e incerta; giù, nel botro pingue
d’acquitrino, cercò sentieri nuovi,
i ciottoli lambì con cento lingue,
e in rigagnoli tristi e senza voce
si sperse in basso e non trovò la foce.
E fu l’opaco stagno, l’occhio tetro
della pianura, che ha per ciglia il ciuffo
di giunchi o canne e, immota come il vetro,
fu solo rotta dal solingo tuffo
della rana. Così, mai più rimossa,
l’acqua morì nella sua grigia fossa.
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