Amava l’argento, amava l’oro,
mia madre. Parlava dell’influenza
dei metalli, della congruenza degli atomi,
delle lezioni d’arte dove imparava
queste cose: pensa
diceva mentre mi raccontava che
per dorare una superficie un mastro artigiano
doveva fondere l’oro col mercurio,
doveva scaldarli entrambi per renderne uno volatile,
l’altro no
e per farlo bene
doveva separarli e poi
bruciare, bruciare, bruciare il mercurio
finché non scappava e lasciava
una pellicina di luce. L’unica cosa, aggiungeva –
ma cosa fosse quella cosa l’ho dimenticato.
Ciò che lei passò una vita a dimenticare
potrebbe essere il mio argomento:
le cittadine cintate di Leinster,
i paesini costieri dove la lingua
del mare era tramandata,
le espressioni contuse dalle tempeste,
dai naufragi. Ma non lo è.
Il mio argomento è il ruolo che il desiderio ha
nel modo in cui i paesini vengono fatti
svanire, nel modo in cui io ho imparato
a separare memoria da conoscenza,
per renderne una volatile, l’altra no
e come ho iniziato a scrivere,
bruciando la luce,
costruendo calore finché d’un tratto
io ero la doratrice del fuoco
pronta a fissare radiosità,
pronta a decorare un è successo
con un non è mai successo quando
d’un tratto mi torna in mente
ciò che lei diceva: l’unica cosa è
che è estremamente pericoloso.
Eavan Boland
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