sopra a deserti di pietra verso la casa del suo piccino, con una renna neonata negli artigli.
Quando si abbassò verso il nido, sbatacchiò violentemente le ali e
un grido selvaggio e stridulo echeggiò nella conca rocciosa, ripetuto da mille echi.
I rami robusti che formavano il letto del nido pendevano dalle sporgenze della parete di roccia con lunghi filamenti di borraccina sudicia, sanguinosa e piena di penne.
Il nido era spogliato e distrutto, e il piccino, che aveva giornalmente
provato le sue ali e misurato il becco e gli artigli a pezzi di preda sempre più grossi, era scomparso.
Allora l'aquila madre si levò in alto, sempre più in alto, finché l'eco
del suo grido non risonò più nella solitudine delle rocce.
Incrociava in giro, spiando. Improvvisamente vi fu uno sbuffare e un
sibilare sulle teste di due cacciatori che venivano dal profondo del bosco.
Uno di loro portava sulla schiena, in un canestro di vimini, un giovane aquilotto prigioniero.
E mentre i due uomini di balza in balza discendevano la lunga strada verso uno dei più alti cascinali, l'aquila madre si librava alta nell'aria, vigilando diffidente.
Attraverso gli squarci delle nubi essa aveva scorto col suo sguardo
acuto che all'arrivo nel cascinale i piccoli e i grandi si erano riuniti intorno al canestro di vimini.
Tutto il giorno incrociò lassù. Quando calò il crepuscolo, l'aquila di-
scese a mezzo, sino al fumo del comignolo della casa. E la gente udì nell'oscurità della sera uno strano e terribile grido sopra il tetto.
La mattina presto — appena cominciò a diffondersi una luce dorata
di sole — essa rivolò in alto, con lo sguardo acuto fisso giù sul cascinale.
Scorse i figli più grandi del contadino, che davanti alla porta di casa
spaccavan la legna con la scure e segavano assicelle, mentre i bambini stavano li ritti a guardare.
Più tardi nella mattinata, portarono fuori nel cortile una gabbia,
attraverso le cui fessure l'aquila madre poteva nettamente distinguere il piccino che svolazzava e picchiava col becco senza tregua, per liberarsi.
La gabbia rimase là abbandonata, senza che alcuno si facesse più
vedere.
Intanto il sole saliva più alto, sempre più alto in quel caldo meriggio.
L'aquila madre roteava e incrociava sempre lassù dietro le nubi e
osservava ogni movimento del piccino, il quale voltava in su il becco adunco e sibilava e stringeva disperatamente le sbarre con i suoi artigli.
Quando s'avvicinò la sera, i fanciulli cominciarono a correre in su
e in giù fra la porta di casa e la gabbia e alla fine si misero a girare tutti allegramente nel cortile.
Uscirono anche alcuni adulti e si posero ai lavori consueti.
L'aria era tepida e tranquilla, e la giovane moglie del cacciatore aveva posato la sua creaturina presso il lavatoio, mentre sciacquava un po' di biancheria alla fonte.
Sul tetto del granaio si dondolavano alcune allegre gazze che ave-
vano il nido sul salice vicino all'ingresso della casa, e giù nel piazzale del cortile saltellavano alcuni passerotti, beccando i semi sparsi.
Improvvisamente l'aria fu attraversata da un'ombra scura e nel silenzio echeggiò uno strido e s'udì un potente sbattere d'ali.
Quando la donna si voltò frettolosamente, un'aquila gigantesca s'innalzava dal lavatoio.
La povera madre saltò su, ghiacciata dallo spavento, tenendo ancora in mano i panni fradici.
L'uccello di rapina aveva il bambino fra gli artigli. Con lo sguardo
fisso ella potè seguirlo per un istante nella salita e veder l'aria sfumare azzurra fra la terra e il suo figlioletto.
Un'angoscia selvaggia e folle la ispirò.
Si precipitò alla gabbia, ne strappò l'aquilotto e con le due braccia
l'alzò quanto potè, lamentandosi e gridando, senza badare che le beccava e le martellava a sangue la testa e il viso.
L'aquila madre si librò un istante tranquilla nell'aria, e la donna,
con gli occhi abbarbagliati, ogni volta che l'uccello sbatteva le ali per mantenersi in alto, vedeva penzolare fra gli artigli, come un verme, il bambino in fasce.
A un tratto le parve che l'aquila si abbassasse e, senza neppure re-
spirare, segui con gli occhi l'uccello di rapina che dolcemente scese sul prato e quivi, sull'erba, posò il bambino.
La donna, allora, lasciò andare l'aquilotto e, come fuor di sé, vacillante, corse dal suo bambino.
I due istinti materni, stretti dall'angoscia, si erano compresi a vicenda.
Ma quando l'aquila madre ebbe lasciata la sua preda e si alzò di
nuovo, dalla casa echeggiò un colpo di fucile. E la fiera potente precipitò inanimata, con le ali largamente spiegate, sul lavatoio, mentre la giovane aquila liberata s'innalzava con un volo breve e rapido sopra la cima del bosco.
di Jonas Lïe
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