È passata qualche settimana, e ora nella mia casa abita una bambina anziana di ottantatré anni. Esile, con i capelli raccolti in uno chignon bianco, le calze che si arrotolano sulle caviglie, le pantofole che sfiorano piano il pavimento. Cammina con lentezza, si ferma davanti alle porte come se ci fossero ostacoli invisibili da superare. Sorride al cane. Parla con chi non c’è più. Ogni giorno mi racconta le “novità” che solo lei sente arrivare dal silenzio. Chiede scusa per disturbare, dorme tanto. Morde piano un pezzetto di cioccolato — gliene lascio sempre uno, sul tavolo — e tiene la tazza del tè con entrambe le mani, perché una ormai trema. Controlla in continuazione il suo anellino sottile: ha paura di perderlo. È il suo piccolo tesoro. Forse l’ultimo. A volte la guardo… e la vedo così piccola, così fragile. Come se avesse smesso di fingere forza, lasciandomi, con fiducia, la sua vita intera. E ora, la cosa più importante per lei è sapere se io sono a casa. Sospira forte, di sollievo, quando sente aprire la porta. Cerco sempre di tornare presto. Di non lasciarla sola troppo a lungo.
E io? Io mi ritrovo a cucinare zuppe ogni giorno, come ai tempi dei miei bambini.
A mettere vassoi di biscotti sul tavolo.
A rallentare.
All’inizio avevo paura.
Mamma è sempre stata forte, indipendente.
Dopo papà, ha vissuto da sola per anni.
E le piaceva. Finalmente faceva ciò che voleva.
Oggi sento una tenerezza che mi riempie il petto.
Una compassione profonda.
Un amore che non ha misura.
So dove stiamo andando.
Lo so bene.
E voglio solo che questo ultimo tratto sia dolce.
Che lei possa sentirsi a casa, al sicuro, avvolta dal calore, dalla quiete, da piccoli gesti pieni di amore.
Il resto… il resto non ha più importanza.
Oggi, in casa mia, vive una “bambina” di ottantatré anni.
E io ringrazio Dio per avermi dato il dono di accompagnarla con rispetto e dolcezza verso il suo tramonto.
Mamma, resta con me ancora un po’.
Ti prego.
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