sabato 23 novembre 2024

La storia del juke-box





23 novembre 1889. L'imprenditore Louis T. Glass (1845-1924), insieme al suo socio in affari, William S. Arnold, installa nel Palais Royal Restaurant (303 Sutter Street) di San Francisco il primo esemplare di “fonografo automatico a moneta” (automatic coin-operated phonograph), o più familiarmente, funzionando con un “nichelino” (5 cent), di nickel-in-the-slot machine (o player), lett. “macchina [inserisci] nichelino-in-fenditura” (cfr. Gert J. Almind, Jukebox History 1888-1913, http://juke-box.dk/gert-history88-13.htm). Il moderno juke-box, la scatola urlante e luminosa per musica che tutti conosciamo, è però più propriamente un’evoluzione della macchina per dischi a 78 giri realizzata dalla Automatic Music Instrument (AMI) nel 1927: il primo dispositivo amplificato elettronicamente, sempre a moneta, dotato di un braccio meccanico e un sistema di dieci dischi, ognuno dei quali con un brano su ogni lato; era chiamato national automatic selective phonograph (ibid.).
Il juke-box ha il suo boom nel secondo dopoguerra, con la nascita del disco nella forma più agile del vinile a 45 giri, e diviene ben presto popolare (soprattutto fra i giovani). Emblema di una vera rivoluzione culturale, nella storia della diffusione di canzoni e canzonette è secondo per importanza solo alla radio. La possibilità di ascoltare un disco in un locale pubblico assicurò alla musica leggera uno straordinario successo. Il juke-box consentiva di scegliere la musica che si voleva, e di ballare nei locali pubblici che lo ospitavano sulle note scatenate di Elvis Presley; si aveva l’illusione che The King, fra gli artisti più suonati di sempre nei juke-box, fosse presente in ogni sala. La nuova invenzione, se ha contribuito in maniera considerevole anche alla diffusione di nuovi generi musicali e dello stile di vita americano, ha finito in ogni caso per produrre anche fenomeni di omogeneizzazione e massificazione:

La diffusione della musica leggera contribuisce a una universalizzazione del gusto; ogni popolo consuma e gradisce lo stesso genere di musica[;] [...] nelle fiere, juke-boxes e grammofoni sostituiscono il cantastorie, nelle taverne eliminano il chitarrista o il suonatore di fisarmonica, come lo eliminano dalle feste nuziali o dai battesimi di campagna (Eco 1964: 300).


Storia di una parola

La parola, così come l’oggetto, nasce all’interno della prolifica cultura afroamericana, più precisamente in quegli stessi ambienti neri della East Coast che daranno i natali al rock and roll. Juke è infatti una parola di origine gullah (la lingua creola degli africani d’America) e significa disorderly ‘disordinato’; sarà quindi sinonimo di ‘locale per ballare’, da cui deriverà to juke ‘ballare’ (cfr. OED s. v. juke; cfr. http://www.oed.com/view/Entry/101991?rskey=OZroAW&result=1&isAdvanced=false#eid40235774).
In Italia la parola juke-box arriva alle soglie degli anni Cinquanta, col diffondersi dell’oggetto. Ne parla già nel 1947, sulle pagine della “Stampa”, Giuseppe Prezzolini, corrispondente del giornale da New York («I locali pubblici che non hanno una Juke-box si contano sulla punta delle dita», 10 dicembre) e l'anno successivo il termine riaffiora sulla “Rivista musicale italiana” (vol. 50) che la virgoletta:

Queste scatole urlanti, chiamati “juke-box”, sono riuscite a penetrare fino nelle scuole medie e nelle università a deliziare la mensa degli studenti. È da notare che in piccoli paesi ed in talune regioni lo jazz è ancora combattuto da tenaci tradizioni di musiche locali popolari; questo avviene specialmente nelle regioni montagnose del Sud, dove popolazioni piuttosto omogenee, mantengono le vecchie canzoni popolaresche, chiamate “hill-billy songs”, e nelle grandi pianure del Far-West, dove i cowboys disseminati nelle lontane fattorie cantano ancora le canzoni nostalgiche.

Dal 1949 la voce, che in queste prime attestazioni presenta ancora oscillazione di genere, rimbalza diffusamente sulla stampa quotidiana e periodica. Sarà un’escalation inarrestabile, nei bar, nelle balere e in altri locali di ristorazione o di svago. Nel 1957 il successo del juke-box è così grande che il quotidiano torinese “Stampa Sera” registra la curiosa sparizione di monete in città, titolando: «Proteste del pubblico delle banche. Mancano le monete da 50 e da 100 lire. Sono sparite quasi tutte nei bigliardini e nei ”juke-box”» (2-3 ottobre 1957). Sarà anche per questa ragione che vennero introdotti i jukebox a gettoni, con il vantaggio che il valore del gettone poteva variare a seconda della stagione o del proprietario del jukebox.
Nel 1959 sbarcano nelle sale cinematografiche due pellicole musicali: I ragazzi del juke-box di Lucio Fulci e Jukebox - Urli d’amore di Mauro Morassi; in quest’ultima Adriano Celentano canta, per l'appunto, Jukebox:

La felicità costa un gettone
per i ragazzi del jukebox.
La gioventù, la gioventù
la compra per cinquanta lire e nulla di più.
Basta un dolce blues e una canzone
per i ragazzi del jukebox.
Ballando qua ballando là
ognuno trova la sua gran felicità.

In una scena della Dolce vita (1960) Marcello Rubini, il personaggio interpretato da Mastroianni, si apparta a lavorare in un chiosco sul mare mentre da un juke-box, che qui è simbolo di un'esistenza semplice e più “popolare”, vengono fuori le note della celebre Patricia di Perez Prado.


La musica a gettoni e il simbolo della cultura pop

Improvvisamente il juke-box mandò altissima l’ultima canzone dell’estate, gettonata dall’ultimo ragazzo che magari sarebbe partito più tardi per la città, e la voce di Domenico Modugno e le note di Nel blu dipinto di blu coprirono per tre minuti la confusione della fiera (Guccini e Machiavelli 1998: 328).

Dal grande successo dell’oggetto («meccanico trovatore moderno» per la voce fuoricampo di un cinegiornale del 1964), e dalla moda di ascoltare la musica grazie a un gettone, discenderà l’aggettivo gettonato, a indicare un brano musicale o un artista di grande successo perché gettonato, per l'appunto, e cioè suonato e ascoltato con frequenza. C’è però un personaggio che può azionare un juke-box senza usare monete, con un colpo secco della mano, o fermare la musica schioccando le dita; è Arthur Fonzarelli detto Fonzie, l’italoamericano sciupafemmine impersonato da Henry Winkler in Happy Days, fortunatissima serie tv ambientata nell’America degli anni ’50-’60 e trasmessa in Italia dal 1977 al 2000.
Fino agli ’90 il juke-box simboleggerà la cultura pop, le estati al mare e le canzoni che vanno da ombrellone a ombrellone, le colonne sonore di un’Italia che scopre il boom economico e progredisce e si trasforma; diffonderà nuove parole e nuovi modi di comunicare e farà ballare migliaia di giovani e meno giovani; farà da sfondo agli innamoramenti di tantissimi adolescenti di provincia. E chi oggi ripensi all'epoca spensierata che lo vide protagonista ricorderà senz'altro il juke-box che Edoardo Bennato diceva di aver sentito suonare, anni prima, «di sfuggita dentro un bar» (Sono solo canzonette, 1980).


Marco Gargiulo
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