Etimologia: Antonio = nato prima, o che fa fronte ai suoi avversari, dal greco
Emblema: Bastone pastorale, Maiale, Campana, Croce a T
Patronato: Eremiti, Monaci, Canestrai
Dopo
la pace costantiniana, il martirio cruento dei cristiani diventò molto
raro; a questa forma eroica di santità dei primi tempi del
cristianesimo, subentrò un cammino di santità professato da una nuovo
stuolo di cristiani, desiderosi di una spiritualità più profonda, di
appartenere solo a Dio e quindi di vivere soli nella contemplazione dei
misteri divini. Questo fu il grande movimento spirituale del
‘Monachesimo’, che avrà nei secoli successivi varie trasformazioni e
modi di essere; dall’eremitaggio alla vita comunitaria; espandendosi
dall’Oriente all’Occidente e diventando la grande pianta spirituale su
cui si è poggiata la Chiesa, insieme alla gerarchia apostolica. Anche se
probabilmente fu il primo a instaurare una vita eremitica e ascetica
nel deserto della Tebaide, S. Antonio ne fu senz’altro l’esempio più
stimolante e noto, ed è considerato il caposcuola del Monachesimo.
Conoscitore profondo dell’esperienza spirituale di Antonio, fu S.
Atanasio vescovo di Alessandria, suo amico e discepolo, il quale ne
scrisse una bella e veritiera biografia. Antonio nacque verso il 250 da
una agiata famiglia di agricoltori nel villaggio di Coma, attuale Qumans
in Egitto e verso i 18-20 anni rimase orfano dei genitori, con un ricco
patrimonio da amministrare e con una sorella minore da educare.
Attratto dall’ammaestramento evangelico “Se vuoi essere perfetto, va’,
vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo, poi
vieni e seguimi”, e sull’esempio di alcuni anacoreti che vivevano nei
dintorni dei villaggi egiziani, in preghiera, povertà e castità, Antonio
volle scegliere questa strada e venduto i suoi beni, affidata la
sorella a una comunità di vergini, si dedicò alla vita ascetica davanti
alla sua casa e poi al di fuori del paese. Alla ricerca di uno stile di
vita penitente e senza distrazione, chiese a Dio di essere illuminato e
così vide poco lontano un anacoreta come lui, che seduto lavorava
intrecciando una corda, poi smetteva si alzava e pregava, poi di nuovo a
lavorare e di nuovo a pregare; era un angelo di Dio che gli indicava la
strada del lavoro e della preghiera, che sarà due secoli dopo, la
regola benedettina “Ora et labora” del Monachesimo Occidentale. Parte
del suo lavoro gli serviva per procurarsi il cibo e parte la distribuiva
ai poveri; dice S. Atanasio, che pregava continuamente ed era così
attento alla lettura delle Scritture, che ricordava tutto e la sua
memoria sostituiva i libri. Dopo qualche anno di questa edificante
esperienza, in piena gioventù cominciarono per lui durissime prove,
pensieri osceni lo tormentavano, dubbi l’assalivano sulla opportunità di
una vita così solitaria, non seguita dalla massa degli uomini né dagli
ecclesiastici, l’istinto della carne e l’attaccamento ai beni materiali
che erano sopiti in quegli anni, ritornavano prepotenti e
incontrollabili. Chiese aiuto ad altri asceti, che gli dissero di non
spaventarsi, ma di andare avanti con fiducia, perché Dio era con lui e
gli consigliarono di sbarazzarsi di tutti i legami e cose, per ritirarsi
in un luogo più solitario. Così ricoperto appena da un rude panno, si
rifugiò in un’antica tomba scavata nella roccia di una collina, intorno
al villaggio di Coma, un amico gli portava ogni tanto un po’ di pane,
per il resto si doveva arrangiare con frutti di bosco e le erbe dei
campi. In questo luogo, alle prime tentazioni subentrarono terrificanti
visioni e frastuoni, in più attraversò un periodo di terribile oscurità
spirituale, ma tutto superò perseverando nella fede in Dio, compiendo
giorno per giorno la sua volontà, come gli avevano insegnato i suoi
maestri. Quando alla fine Cristo gli si rivelò illuminandolo, egli
chiese: “Dov’eri? Perché non sei apparso fin da principio per far
cessare le mie sofferenze?”. Si sentì rispondere: “Antonio, io ero qui
con te e assistevo alla tua lotta…”.Scoperto dai suoi concittadini, che
come tutti i cristiani di quei tempi, affluivano presso gli anacoreti
per riceverne consiglio, aiuto, consolazione, ma nello stesso tempo
turbavano la loro solitudine e raccoglimento, allora Antonio si spostò
più lontano verso il Mar Rosso. Sulle montagne del Pispir c’era una
fortezza abbandonata, infestata dai serpenti, ma con una fonte sorgiva e
qui nel 285 Antonio si trasferì, rimanendovi per 20 anni. Due volte
all’anno gli calavano dall’alto del pane; seguì in questa nuova
solitudine l’esempio di Gesù, che guidato dallo Spirito si ritirò nel
deserto “per essere tentato dal demonio”; era comune convinzione che
solo la solitudine, permettesse alla creatura umana di purificarsi da
tutte le cattive tendenze, personificate nella figura biblica del
demonio e diventare così uomo nuovo. Certamente solo persone
psichicamente sane potevano affrontare un’ascesi così austera come
quella degli anacoreti; non tutti ci riuscivano e alcuni finivano per
andare fuori di testa, scambiando le proprie fantasie per illuminazioni
divine o tentazioni diaboliche.Non era il caso di Antonio; attaccato dal
demonio che lo svegliava con le tentazioni nel cuore della notte,
dandogli consigli apparentemente di maggiore perfezione, spingendolo
verso l’esaurimento fisico e psichico e per disgustarlo della vita
solitaria; invece resistendo e acquistando con l’aiuto di Dio, il
“discernimento degli spiriti”, Antonio poté riconoscere le apparizioni
false, compreso quelle che simulavano le presenze angeliche. E venne il
tempo in cui molte persone che volevano dedicarsi alla vita eremitica,
giunsero al fortino abbattendolo e Antonio uscì come ispirato dal soffio
divino; cominciò a consolare gli afflitti ottenendo dal Signore
guarigioni, liberando gli ossessi e istruendo i nuovi discepoli. Si
formarono due gruppi di monaci che diedero origine a due monasteri, uno
ad oriente del Nilo e l’altro sulla riva sinistra del fiume, ogni monaco
aveva la sua grotta solitaria, ubbidendo però ad un fratello più
esperto nella vita spirituale; a tutti Antonio dava i suoi consigli nel
cammino verso la perfezione dello spirito uniti a Dio. Nel 307 venne a
visitarlo il monaco eremita S. Ilarione, che fondò a Gaza in Palestina
il primo monastero, scambiandosi le loro esperienze sulla vita
eremitica; nel 311 Antonio non esitò a lasciare il suo eremo e si recò
ad Alessandria, dove imperversava la persecuzione contro i cristiani,
desideroso lui stesso del martirio. Forse perché incuteva rispetto e
timore reverenziale anche ai Romani, fu risparmiato.Tornata la pace
nell’impero e per sfuggire ai troppi curiosi che si recavano nel
fortilizio del Mar Rosso, decise di ritirarsi in un luogo più isolato e
andò nel deserto della Tebaide, dove prese a coltivare un piccolo orto
per il suo sostentamento e di quanti, discepoli e visitatori, si
recavano da lui per aiuto e ricerca di perfezione. Visse nella Tebaide
fino al termine della sua lunghissima vita, poté seppellire il corpo
dell’eremita S. Paolo di Tebe con l’aiuto di un leone, per questo è
considerato patrono dei seppellitori. Negli ultimi anni accolse presso
di sé due monaci che l’accudirono nell’estrema vecchiaia; morì a 106
anni, il 17 gennaio del 356 e fu seppellito in un luogo segreto. La sua
presenza aveva attirato anche qui tante persone desiderose di vita
spirituale e tanti scelsero di essere monaci; così fra i monti della
Tebaide sorsero monasteri e il deserto si popolò di monaci; primi di
quella moltitudine di uomini consacrati che in Oriente e in Occidente,
intrapresero quel cammino da lui iniziato, ampliandolo e adattandolo
alle esigenze dei tempi.I suoi discepoli tramandarono alla Chiesa la sua
sapienza, raccolta in 120 detti e in 20 lettere; nella Lettera 8, S.
Antonio scrisse ai suoi “Chiedete con cuore sincero quel grande Spirito
di fuoco che io stesso ho ricevuto, ed esso vi sarà dato”.Nel 561 fu
scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggiare
nel tempo, da Alessandria a Costantinopoli, fino in Francia nell’XI
secolo a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore.
In questa chiesa a venerarne le reliquie, affluivano folle di malati,
soprattutto di ergotismo canceroso, causato dall’avvelenamento di un
fungo presente nella segala, usata per fare il pane. Il morbo era
conosciuto sin dall’antichità come ‘ignis sacer’ per il bruciore che
provocava; per ospitare tutti gli ammalati che giungevano, si costruì un
ospedale e una Confraternita di religiosi, l’antico Ordine ospedaliero
degli ‘Antoniani’; il villaggio prese il nome di Saint-Antoine di
Viennois. Il papa accordò loro il privilegio di allevare maiali per uso
proprio e a spese della comunità, per cui i porcellini potevano
circolare liberamente fra cortili e strade, nessuno li toccava se
portavano una campanella di riconoscimento. Il loro grasso veniva usato
per curare l’ergotismo, che venne chiamato “il male di s. Antonio” e poi
“fuoco di s. Antonio” (herpes zoster); per questo nella religiosità
popolare, il maiale cominciò ad essere associato al grande eremita
egiziano, poi fu considerato il santo patrono dei maiali e per
estensione di tutti gli animali domestici e della stalla. Nella sua
iconografia compare oltre al maialino con la campanella, anche il
bastone degli eremiti a forma di T, la ‘tau’ ultima lettera
dell’alfabeto ebraico e quindi allusione alle cose ultime e al destino.
Nel giorno della sua festa liturgica, si benedicono le stalle e si
portano a benedire gli animali domestici; in alcuni paesi di origine
celtica, S. Antonio assunse le funzioni della divinità della rinascita e
della luce, LUG, il garante di nuova vita, a cui erano consacrati
cinghiali e maiali, così S. Antonio venne rappresentato in varie opere
d’arte con ai piedi un cinghiale.Patrono di tutti gli addetti alla
lavorazione del maiale, vivo o macellato; è anche il patrono di quanti
lavorano con il fuoco, come i pompieri, perché guariva da quel fuoco
metaforico che era l’herpes zoster, ma anche in base alla leggenda
popolare che narra che S. Antonio si recò all’inferno, per contendere
l’anima di alcuni morti al diavolo e mentre il suo maialino sgaiattolato
dentro, creava scompiglio fra i demoni, lui accese col fuoco infernale
il suo bastone a ‘tau’ e lo portò fuori insieme al maialino recuperato e
lo donò all’umanità, accendendo una catasta di legna.Per millenni e
ancora oggi, si usa nei paesi accendere il giorno 17 gennaio, i
cosiddetti “focarazzi” o “ceppi” o “falò di S. Antonio”, che avevano una
funzione purificatrice e fecondatrice, come tutti i fuochi che
segnavano il passaggio dall’inverno alla imminente primavera. Le ceneri
poi raccolte nei bracieri casalinghi di una volta, servivano a
riscaldare la casa e con apposita campana fatta con listelli di legni
per asciugare i panni umidi. È invocato contro tutte le malattie della
pelle e contro gli incendi. Veneratissimo lungo i secoli, il suo nome è
fra i più diffusi del cattolicesimo, anche se poi nella devozione
onomastica è stato soppiantato dal XIII sec. dal grande omonimo santo
taumaturgo di Padova. Nell’Italia Meridionale per distinguerlo è
chiamato “Sant’Antuono”.
Autore: Antonio Borrelli
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